#12 Una patatina controversa...
Uno spot di uno snack mette a disagio i cattolici che avvisano "non è pubblicità ma blasfemia"
📬Questa è Sacro&Profano, la newsletter che una volta a settimana ti fa capire due o tre cose sul mondo attraverso le lenti della religione, senza essere confessionale.
Quando ho scelto il nome di questa newsletter mi era chiaro che voleva dire occuparsi di tante cose anche molto diverse e che non sarebbe stato facile. Ad esempio i termini stessi sono ambigui. Il sacro ha diverse accezioni, quello che non va toccato ad esempio, profano in teoria è il contrario, l’etimologia ci dice che è qualcosa lontano dallo spazio sacro, ma profanità è anche diventato sinonimo di blasfemia che è molto più di “non-sacro” se ci pensate, no? Messi insieme vuol dire occuparsi di cose che stanno dentro e che stanno fuori dagli spazi religiosi, ma anche dentro e fuori spazi di libertà e di sperimentazione. Poi ci sta anche il buonsenso. Mi sa che oggi ne parliamo di ‘sta roba…
Si comincia
In principio era uno spot per delle patatine, che se ve lo siete perso provvediamo noi, inserito in un contesto claustral-monastico. Ci sono diversi livelli in questa pubblicità che però gioca attorno all’umorismo, anche un po’ di grana grossa diciamolo.
L’accusa è di “blasfemia”
Successivamente sono arrivate le lamentele dell’AIART che è un gruppo - che potremmo definire spin-off dell’Azione Cattolica - che ha come compito la riflessione e lo studio di tv e cinema, in una ottica educativa nel segno della Dottrina Sociale della Chiesa il quale si è lamentato per i contenuti evidentemente parodizzanti dello spot rispetto non tanto alle suore o all’ambiente ecclesiale, questo penso sia importante dirlo, ma perché ad essere insultata è l’Eucarestia. La cosiddetta “messa della domenica” altro non è che la celebrazione eucaristica, dove il sacerdote insieme alla comunità dei credenti consacra acqua e vino perché diventino (per la teologia cattolica non è un simbolo, avviene qualcosa di reale) il Sangue e il Corpo di Cristo, morto e risorto (stiamo tagliando tutto con l’accetta). La particola quindi (il pezzetto di ostia consacrata) è quindi qualcosa di molto prezioso, esse non vengono buttate se avanzano, se osservate con attenzione vedrete che nemmeno le briciole vengono perse durante la celebrazione. Insomma è una cosa delicata e su questa importanza si basa l’accusa di blasfemia.
Ancora più interessante:
Ma trovo ancor più interessante riflettere sulla strategia con la quale lo spot viene diffuso, anche alla luce di quanto dichiarato dall’agenzia produttrice Lorenzo Marini Group. La versione che ho descritto, e di cui abbiamo dato il link, è quella destinata a circolare online. In quella vista finora in tv (reti Mediaset e Cairo) si ode solo il «crock», il rumore della patatina sgranocchiata, ma non si capisce se esso proviene dalla suora che ha ricevuto la comunione o da quella golosa di patatine. A quanto riferisce Avvenire, in RAI passa una terza versione, dove è esplicito il fatto che la suora riceve una particola e non una patatina (Il Regno).
Il messaggio è chiaro, viene veicolato in modi leggermenti diversi, l’accostamento è voluto (ovviamente) e anche suggerito. Nel frattempo lo spot è stato bloccato e sono arrivate le scuse da parte dell’azienda.
Religioni, pubblicità, secolarizzazione
Per capire un po’ meglio la questione mi sono rivolto al professor Carlo Nardella, associato di sociologia all’Università di Milano, ed esperto nel rapporto tra media, cultura e religione e in particolare proprio del rapporto con la pubblicità. Poi abbiamo allargato un po’ il discorso…
Professor Nardella non è la prima volta che la pubblicità trae dall'iconografia e dalla simbologia religiosa portandola talvolta all'estremo (penso alla pubblicità dei jeans del ragazzo che cambia sesso per diventare suora, ma sarebbe solo una delle tantissime). Voglia di dissacrazione o la certezza che - nonostante tutto - quei riferimenti sono comprensibili a tutti?
È difficile non ritenere che nei destinatari del messaggio sia presente la percezione che i simboli utilizzati appartengano a un sistema religioso come anche la capacità di decifrarne i significati. A ben vedere, ricorrendo a riferimenti religiosi, sono i pubblicitari stessi ad assumere che nel contesto italiano sia (ancora) presente, e in buona parte diffusa, una competenza del pubblico a riconoscere i significati dei simboli proposti e, perciò, la capacità di decifrare i messaggi. Non credo però si tratti solo di pura e semplice volontà di “dissacrazione” da parte dei pubblicitari, anche se a volte questa è l’unica cosa che appare. Lasciando da parte gli aspetti valutativi e rimbalzando la problematica a livello scientifico, mi limito a notare che oggi la pubblicità commerciale, intesa come forma di comunicazione specifica del campo economico, mira come suo scopo principale a collocare un brand entro un orizzonte di senso fruibile dai consumatori allo scopo di far acquisire al brand nuove dimensioni simboliche che ne aumentino il valore. Nel marketing moderno, infatti, il valore di un brand non viene calcolato solo sulla base del prezzo che esso è in grado di conferire al prodotto ma anche sulla base del sovrappiù di attenzione, di emozioni, di identità, di esperienze, perfino di azioni che i consumatori sono portati, anche grazie alla pubblicità, a investire nel brand. In quest’ottica, l’uso dei simboli religiosi in pubblicità assolve oggi a questa funzione principale collegando i consumatori a un “mondo di marca”. Talvolta ciò avviene anche suscitando, e proprio per il fatto di suscitare, reazioni conflittuali nel pubblico, tra esponenti di istituzioni secolari o, qualora il conflitto appaia in modo manifesto, tra esponenti di istituzioni religiose che intervengono in risposta a “invasioni” compiute sul proprio campo di significati (si pensi, tra le altre, alle campagne di Toscani per il brand Benetton).
Quanto resta della simbologia religiosa quindi nel mondo culturale pop?
Mi sembra molto. Ciò è attestato non solo dalle mie ricerche condotte nel campo della pubblicità ma anche da una letteratura scientifica che ha iniziato ad accumularsi quasi in sordina sul finire degli anni Novanta del secolo scorso ed è esplosa nel secondo decennio degli anni Duemila, contenente analisi svolte in una molteplicità di settori, dal cinema alla televisione ai best sellers letterari all’arte moderna alla moda fino alla musica ai videogames alle reti dei social media.
Lei ha da poco curato un volume dal titolo “Religioni dappertutto. Simboli, immagini, sconfinamenti” (Carocci) con molti contributi di diversi studiosi, in cui ha ripreso questa lunga tradizione (risalente alla belle époque) di uso pubblicitario del religioso: questo uso profano è l'inizio della crisi del religioso nell'età contemporanea?
Non direi. I risultati della ricerca presentati in questo volume mostrano come il campo della pubblicità abbia da sempre, nella sua vita relativamente breve, utilizzato riferimenti religiosi. Perché si tratta di simboli e sistemi interpretativi diffusi, la cui diffusione stessa consente una generale possibilità di de-contestualizzarli, mentre la (relativa) debolezza del campo religioso permette, o comunque facilita, una appropriazione. L’importante, come dicevo prima, è che si possa ritenere che sia presente nei destinatari del messaggio la percezione che essi appartengono ad un universo religioso, per quanto genericamente definibile. A tal proposito, l’uso pubblicitario di questi riferimenti potrebbe anche contribuire a mantenerli in vita per lo meno nella percezione diffusa e, certo, non senza trasformarli. Questo perché l’appropriazione pubblicitaria, per quanto impropria, li accredita come riferimenti a un sistema di significato religioso e la presenza di un’opposizione, quando emerge, facilita questo risultato.
“Religioni dappertutto”, il titolo del libro va a smentire l'idea dell'eclissi del sacro, della secolarizzazione oggi messa in discussione dai sociologi, specialmente per un certo ritorno anche nel discorso pubblico politico?
Questo titolo vuole indicare che ci troviamo di fronte a un fenomeno duplice che in realtà non nega, anzi conferma il processo di secolarizzazione in atto. Per un verso, le religioni oggi calcano la ribalta perché diventano in qualche modo utili agli attori sociali che vi fanno ricorso, offrendo a questi soggetti risorse simboliche funzionali alla costruzione di rappresentazioni socialmente condivise che siano almeno in parte già accettate a livello collettivo (pensiamo, oltre al marketing, anche all’uso delle religioni in politica a livello sia nazionale sia internazionale, da Trump a Putin). Si tratta di rappresentazioni che, incorporando il potenziale simbolico dei riferimenti religiosi che utilizzano, si trasformano per i pubblici cui sono rivolte in strumenti di distinzione e di identificazione sociale, dunque di appartenenza. Per altro verso, la collocazione originaria di questi riferimenti entro un campo specialistico della religione passa in secondo piano, mentre i simboli religiosi diventano un deposito di immagini e segni che può essere liberamente usato per creare nuovi prodotti culturali. In quest’ottica, l’immissione delle religioni sulla scena pubblica che l’espressione Religioni dappertutto mette in luce è solo una faccia della medaglia, comportando al contempo una retrocessione delle religioni dalla ribalta dovuta al fatto che le istituzioni religiose perdono la capacità di gestire, o almeno di controllare in modo esclusivo, il proprio patrimonio simbolico in favore di altri attori sociali collocati in altri campi e settori della società.
Grazie professore!
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Consigli di lettura
L’affaire delle scuole chiuse per festività religiose arriva in Consiglio dei ministri. Il Ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara, avrebbe esposto il tema ai suoi colleghi, annunciando di essere al lavoro per trovare una soluzione. Una delle ipotesi al vaglio, riportano le agenzie, consisterebbe nell'introduzione di una normativa che regoli le assenze scolastiche durante le festività religiose, permettendole solo nei casi in cui vi siano accordi tra lo Stato e le confessioni religiose (HuffPost). Il corollario di questa vicenda che parla di islamofobia e di culture wars è che senza stranieri ci sono classi che perderebbero il 70% di alunni, va da sé che quindi integrarli facendoli sentire parte di una comunità che rispetta la loro fede forse è il modo migliore per evitare i ghetti francesi… (ANSA)
In Polonia primi cambiamenti anche nel mondo della scuola dopo che Donald Tusk ha vinto le elezioni. Nelle scuole primarie religione (cattolica) non farà più media con le altre materie. Una scelta significativa che si spiega - almeno in parte - anche con il passato di appoggio quasi incondizionato da parte della Chiesa polacca al governo di destra del premier Mateusz Jakub Morawiecki del partito Diritto e Giustizia (PiS). Lo trovi qui.
Quella che tra aprile e luglio 1994 provocò circa 1 milione di morti non è certo una guerra di religione, nel senso che i sostenitori di una fede attaccano quelli di un'altra. Quando iniziò il genocidio, la popolazione ruandese, sia Hutu che Tutsi, era in stragrande maggioranza cristiana, e la Chiesa cattolica da sola rappresentava circa il 60% dei ruandesi. Tuttavia nel massacro che avvenne una componente religiosa è emersa, una violenza intrareligiosa inedita. A trent’anni dal terribile genocidio ruandese Le Monde fa un approfondimento apprezzabile.