L'Occidente e l'antisemitismo
Per l'Europa l'Olocausto ha rappresentato una cesura storico-morale importante ma che ha contribuito anche al cambiamento dei rapporti tra le chiese e l'ebraismo. Oggi tutto è in discussione
Il Sudafrica ha portato in tribunale Israele con l’accusa di genocidio per l’azione militare di quest’ultimo nella Striscia di Gaza. Lo scopo di Tel Aviv non sarebbe - secondo Pretoria - di volersi difendere o distruggere Hamas, ma eliminare i palestinesi e costringerli ad andarsene dalle loro case. Il caso è finito davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja giovedì.
Sulla questione giuridica non ho veramente competenze per dire nulla, se ci sono i presupposti per condannare Israele o meno sulla base delle accuse io non so immaginarne gli esiti. Per la storia della Corte e delle sue sentenze però sembra difficile, finora nessuno stato è mai stato condannato per genocidio. Questo non vuol dire che Israele non stia compiendo invece crimini di guerra a Gaza, anzi è più che plausibile con almeno 23 mila morti (in larga parte donne e bambini) e bombardamenti che hanno coinvolto civili, ospedali, case e - in teoria - zone che erano state dichiarate sicure dallo stesso IDF. Il diritto di Israele di difendersi dopo i fatti del 7 ottobre non è in discussione, ma ci sono modi che la comunità internazionale ritiene “giusti” e altri meno. Da qui la nozione di crimini di guerra. E qui viene un pezzo del problema a mio avviso. Accusare Israele di “genocidio” e non di “crimini di guerra” (che sarebbe certamente più semplice da provare) ha un valore politico. A differenza di quanto ho letto in giro non credo che il Sudafrica stia facendo il “lavoro sporco” per conto della Russia né che
Il Sudafrica è "il braccio giuridico dell'organizzazione terroristica Hamas". Lo ha denunciato Lior Hayat, portavoce del ministero degli Esteri israeliano, secondo cui oggi all'Aja "si è stati testimoni di uno dei più grandi spettacoli di ipocrisia nella storia, costruito su una serie di affermazioni false ed infondate". Il Sudafrica, ha spiegato, "ha distorto del tutto la realtà a Gaza dopo il massacro del 7 ottobre e ha completamente ignorato il fatto che i terroristi di Hamas si sono infiltrati in Israele uccidendo, massacrando, violentando e rapendo cittadini israeliani solo perché tali, nel tentativo di compiere un genocidio" (ANSA).
Rapporti tesi da tempo tra le due nazioni
Questo è parte dello scontro politico in atto. Non si può escludere un risentimento per la storia delle relazioni tra Israele e Sudafrica precedenti alla fine dell’apartheid, in cui lo stato segregazionista della minoranza afrikaaner comprava armi da usare contro i manifestanti neri da Tel Aviv e avviava collaborazioni militari come ricorda AGI
nel 1976 la visita di Stato in Israele di Vorster, accolto con tutti gli onori. Da quel momento, i vertici della difesa dei due Paesi iniziarono una 'storia d'amorè che diede vita tra l'altro a una proficua collaborazione nell'ambito dell'industria degli armamenti, fino ad arrivare a lavorare segretamente insieme allo sviluppo del nucleare. Gli israeliani erano coinvolti in Angola come consulenti dell'esercito sudafricano mentre in Israele fabbriche producevano munizioni e attrezzature da utilizzare contro i manifestanti neri.
Negli anni '80, mentre proseguiva lo stretto rapporto tra i due Paesi, parallelamente si rafforzava il sostegno dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) all'African National Congress (Anc), con entrambi che vedevano nelle reciproche lotte echi della propria. Quando Nelson Mandela usci' dal carcere nel 1990, uno dei primi leader che incontrò fu il suo caro amico e confidente Yasser Arafat, che lui chiamava "compagno d'armi".
"La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi", è una delle frasi più citate dell'uomo-simbolo della lotta all'apartheid che nel 1994 vinse le prime elezioni democratiche nel Paese.
Ma questo può spiegare il perché alcune cose ma non tutte e soprattutto non ci dice qual è il vero oggetto del contendere: equiparare Israele alla Germania nazista. Verrebbe meno il senso di colpa verso l’ebraismo e la necessità storica di Israele come casa sicura. Questa accusa secondo me viene lanciata dal Sudafrica non per caso - non per un qualche complotto - ma perché questo problema morale non è un problema africano, ma europeo-occidentale. Un continente che non ha vissuto i pogrom (nel senso storico) e che ora vede - anche comprensibilmente - dei “bianchi” (gli israeliani) che attaccano dei “neri” (i palestinesi) e non si capacita di alcuni (oggettivamente audaci) doppi standard.
Il vero problema è la storia della Shoah
Qui diventa complicato a mio avviso, perché c’è un problema tutto interno al campo occidentale. Non si spiegherebbe altrimenti l’ansia tedesca di legarsi mani e piedi a Israele se non con il senso colpa collettiva di essere se non la causa prima una delle principali della necessità storica di Israele: senza Shoah non si comprende Israele (certo il sionismo c’era da molto prima, ma senza i fatti della Seconda Guerra Mondiale avremmo avuto Israele nella Palestina storica? Dubito). La prova provata è la proposta (non importa se verrà accolta o meno) formulata a dicembre da alcuni politici tedeschi
Fa discutere in Germania l’idea di introdurre, come requisito per l’accesso alla cittadinanza, una formula che attesti da parte del richiedente il riconoscimento dello Stato d’Israele. Sulle modalità concrete non c’è ancora chiarezza ed è possibile che si tratti più che altro di trovate di politici in cerca di visibilità; in generale soluzioni di questo tipo, inevitabilmente tecniche e burocratiche, hanno sempre convinto poco. Tuttavia, una discussione esiste ed è forse il caso di spendere qualche parola.
La questione può essere formulata in questi termini: può lo Stato che ha realizzato l’Olocausto chiedere a chi fa ingresso nella comunità politica la condivisione di quello che Angela Merkel ha chiamato, in un discorso del 18 marzo 2008 di fronte al Parlamento israeliano, la Knesset, parte della ragion di Stato (Staatsräson) della Repubblica federale, vale a dire l’esistenza dello Stato d’Israele? (Il Mulino)
La possibilità di entrare a far parte di un consesso politico (la cittadinanza) subordinato al riconoscimento di un altro stato e delle sue ragioni storiche. Credo sia un unicum. Ma è chiaro che c’è una ferita aperta e da quella ferita c’è anche un bene possibile. Ad esempio non è che non ci fosse una riflessione in atto nella Chiesa sui rapporti tra ebraismo e cattolicesimo e sul superamento dell’antisemitismo teologico (che va ricordato non ha mai contemplato lo sterminio degli ebrei e nemmeno l’assimilazione), ma senza la tragedia della Shoah ci sarebbe stata la Nostra Aetate? Anche qui dubito.
«Essa [la Chiesa] considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Due invece le sottolineature nelle relazioni con l’ebraismo: sì definitivo alle radici ebraiche del cristianesimo, no irrevocabile all’antisemitismo. La Chiesa infatti – recita Nostra Aetate – «crede che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso». E ancora: se è vero come attesta la Sacra Scrittura, che Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata e gli ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, tuttavia «gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento». Infine, malgrado autorità ebraiche con i propri seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo, «tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo». E anzi, essendo «tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei» il Concilio «vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo» (Avvenire)
Ma quanto è stato recepito questo documento dalla Chiesa e dai cattolici? E’ una domanda legittima che ci aiuta a capire il rapporto che oggi abbiamo noi con Israele, vista la non poca influenza che il cattolicesimo ha nel mondo, anche africano. Solo una comprensione diversa del rapporto tra ebraismo-Israele-cristiani può costruire una diversa postura anche nell’attuale conflitto. Faccio mie le parole di Alessio Aringoli nel suo blog sull’Huffington Post:
è ora che la Chiesa approfondisca e consolidi la sua riflessione teologica, magisteriale, pastorale sul suo sostegno al diritto all'esistenza dello Stato di Israele, al diritto degli ebrei di avere un proprio Stato in cui vivere in sicurezza, senza rischiare di subire oppressioni e violenze in quanto ebrei, e dove poter coltivare in pace i tesori plurali e molteplici della cultura e della spiritualità ebraica.
Sarebbe bene che la Chiesa comprenda anche che sempre più gli ebrei si confronteranno, a loro volta, con l'ebraicità di Gesù, solo se e quando, grazie al successo del sionismo, avranno la garanzia che questo confronto non potrà mai implicare la loro scomparsa come popolo.
Deve venire meno il timore di scontentare qualcuno, nella parresia che la Chiesa ha il dovere di avere al riguardo, anche restando sempre memore delle sue gravi responsabilità nella storia dell'odio verso gli ebrei, una storia tragica e terribile, che richiede in modo particolare fortezza, oggi, per conferire limpida credibilità ai cammini di pentimento e di conversione al riguardo.
Si tratta, d'altro canto, anche del modo migliore per sostenere i diritti di altri popoli, in primis il palestinese. Le sofferenze dei palestinesi non possono essere imputate esclusivamente ad Israele (il comportamento delle classi dirigenti arabe e oggi del fondamentalismo verso i palestinesi è una pagina buia della storia), ma nondimeno Israele deve fare fronte alle sue responsabilità.
Anche la chiosa su Facebook dello studioso della figura di Giovanni Battista e dell’ebraicità di Gesù, Federico Adinolfi proprio al pezzo di Aringoli è interessante in prospettiva sia cristiana che di dialogo con l’ebraismo. La riflessione teologica, lungi da dare un crisma di “Deus vult” alle violenze dell’esercito israeliano a Gaza, aiuta anzi ad inchiodare Israele alle sue responsabilità di essere parte della cosiddetta “Storia della Salvezza” e di doverne essere all’altezza, ma quindi Israele non è e non può essere equiparata al Terzo Reich. Vorrebbe dire Israele va cancellato come giustamente la comunità internazionale cancellò la Germania Nazista.
Ora, la nascita dello stato di Israele è un evento di capitale importanza per la storia del popolo ebraico, la cui alleanza con Dio non è mai stata revocata, e al quale noi cristiani - che siamo popolo di Dio solo per adozione - siamo indissolubilmente legati come rami d'olivo selvatico innestati sull'olivo buono.
Di conseguenza, l'esistenza dello stato di Israele non può essere, per un cristiano, una realtà semplicemente priva di qualunque valore teologico.
Del resto, se c'è un risultato definitivo e incontestabile a cui siamo pervenuti grazie al profluvio di studi sul Gesù storico degli ultimi decenni, è che la sua attività era orientata alla restaurazione nazionale di Israele - simbolicamente rappresentata dal gruppo dei Dodici -, cioè all'avvento del regno di Dio, il quinto regno di cui parla il libro di Daniele, il regno del popolo dei santi dell'Altissimo, il regno di Israele. Un'autentica realtà politica (seppur nel contesto di un mondo trasformato escatologicamente) retta da un governo popolare composto da semplici pescatori (Mt 19,28//Lc 22,28-30) e che avrebbe governato per servire il popolo, in modo antitetico ai governi dispotici delle altre nazioni (Mc 10,42-44).
Non c'è neanche bisogno di dire che l'attuale stato di Israele non è evidentemente il regno escatologico sognato da Gesù!!! Non esistono parole di Gesù sul fatto che Israele avrebbe dovuto umiliare altri popoli (e come potrebbe essere diversamente, dal momento che il suo messaggio e la sua azione erano volti alla liberazione degli oppressi?).
Nondimeno, al netto di tutti i limiti e le colpe imputabili ai governi israeliani, l'esistenza di uno stato di Israele in cui si è realizzata - come fine dell'incubo nazista - la speranza del "verranno da oriente e da occidente" di Matteo 8,11 (è stato dimostrato che tale espressione si riferisce al ritorno degli ebrei della diaspora, non al pellegrinaggio delle nazioni a Sion - vedi ad es. il commento a Matteo di fra Giulio Michelini) è qualcosa di conforme alla volontà di Gesù, e, come tale, non può essere teologicamente insignificante - bensì è autenticamente vangelo, buona notizia, anche in un'ora buia e ambigua come la presente.
L’accusa di genocidio dunque è problematica perché lungi dal voler risolvere i problemi dei palestinesi, vuole rimuovere la legittimità all’esistenza di Israele equiparandone il comportamento a quello che - finora - è stata la pietra di paragone del Male Assoluto per il diritto internazionale: la Shoah. Ma quando ci sono due mali assoluti allora si trasformano tutti in mali relativi e tutto si allenta anche in altri fronti e frangenti (dallo Yemen, alla Siria, all’Ucraina, al Myanmar, al Nepal, ecc) mettendo a rischio la nozione di diritti umani per come l’abbiamo pensata finora.
Come la penso
Chi mi segue sui miei social sa che ho una posizione molto critica verso le azioni militari e politiche di Israele (specie sull’accanimento contro i giornalisti morti decine e decine in questi tre mesi) ma non su Israele e il rischio che la critica sulle cose fatte diventi una critica tout court sulla legittimità di Israele ad esistere è un confine che non penso possiamo permetterci di oltrepassare. Le fedi religiose possono dare un contributo al dibattito come - spero - di aver (in parte) dimostrato.
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Io sono Lucandrea Massaro e questo era il terzo numero di Sacro&Profano!